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Un viaggio nella vita di quattro donne. Intervista alla scrittrice Antonella Cavallo

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Ciao Antonella benvenuta come stai?
Iniziamo parlando del tuo nuovo romanzo ZIA AGATA, da poco uscito per Morellini Editore, che ho avuto il piacere di leggere freschissimo di stampa – la copertina, che è molto elegante, ci introduce direttamente alle protagoniste della storia, quattro donne.
Vuoi raccontarci la trama del romanzo e parlarci delle donne che vedo qui raffigurate?

Una rosa di personaggi intreccia e aggrega la vita e le storie di quattro donne in modo tale da non poterne nominare uno, escludendone un altro.

Annalisa, New York, 2019: è seduta a Central Park con una scatola DHL al suo fianco, di fronte a lei il suo bambino sgambetta su una moto a pedali.
La scatola contiene gli ultimi effetti del padre di Annalisa morto da detenuto nel carcere milanese di San Vittore: un orologio, un libro, un disegno che raffigura il volto di una bambina che le somiglia e una lettera, l’ultima che suo padre le ha indirizzato prima di morire.
“Parla con tuo figlio, raccontagli la tua storia, per quanta sofferenza ti abbia causato, lui deve conoscere le proprie radici”.
Di qui Annalisa inizia a raccontare la storia delle sue quattro famiglie – per ultima quella di Édmond, suo marito, morto due anni prima lasciandola vedova e incinta.

Milano, Cimitero Maggiore, 2017: Annalisa, Victoria, Agata e Margherita (rispettivamente: la vedova, la madre, la zia e la nonna del giovane Edmond) ne piangono la morte.
Sono quattro donne devastate dal lutto, le loro storie legate in modo indissolubile da un episodio sconvolgente e dal dolore che ciascuna affronta a modo suo.  Il loro è un destino comune con un segreto che, se rivelato, potrebbe distruggere tre famiglie.
Le incontriamo oggi come donne adulte e in età avanzata, ma attraverso il ritrovamento di alcune lettere e pagine di vecchi diari le ritroviamo giovani e ragazzine in un momento particolare della loro vita: il momento in cui scoprono di essere incinta.  
Ne emergono stati d’animo legati a maternità scoperte, combattute e vissute in epoche diverse. 
Gli eventi che le coinvolgono turbinano a ritroso nel tempo tra gli anni 1983 e 1968 viaggiando tra Milano, Parigi e New York. 

Scavando e scandagliando nel profondo dei ricordi, attraverso il potere catartico della scrittura terapeutica – elemento fondante del nucleo della storia – riusciranno a riconciliarsi con la vita. 

Ti ho sentita definire il tuo romanzo ZIA AGATA “un contenitore di temi sociali”: che cosa intendi dire?  Quali i nodi di rilevanza sociale da te affrontati nel romanzo?

Senza svelare troppo, posso citarli in ordine alfabetico: anaffettività, affido familiare, bullismo, carcere, crisi di abbandono, famiglia allargata, ippoterapia,scrittura terapeutica, stupro.

In quarta di copertina c’è un logo che ci reinvia ad ‘Extended Book’, una bellissima iniziativa della tua Casa Editrice Morellini.

Extended Book è letteralmente un’estensione dei contenuti del libro: in quarta di copertina c’è un codice QR tramite il quale il lettore, collegandosi a internet, può approfondire gli argomenti trattati nel romanzo.
Collegandosi invece a Spotify è possibile scaricare la playlist, cioè la colonna sonora del viaggio in auto che nel 1983 Leonardo e Victoria affronteranno perché lei, incinta di otto mesi, ha deciso di andare a partorire a Parigi vicino ai nonni paterni. 

Vorrei ora parlare con te di un aspetto che so molto importante nella tua vita, e cioè l’attività di volontariato che svolgi presso gli istituti penitenziari milanesi di San Vittore e Bollate.
Hai scelto di entrare in contatto con una realtà molto impegnativa e difficile da avvicinare: come mai? Cosa ti ha spinta? E quali sono i progetti che porti avanti con le persone detenute in carcere?

Sono sempre stata incuriosita da ciò che va oltre il reato, il delitto, la colpa; non intendo l’aspetto legale, ma proprio “cosa succede a chi ha commesso un reato”.
Avevo il desiderio di entrare in carcere per capire, vedere coi miei occhi, ascoltare la voce di quelle persone.
Allora non sapevo il perché, l’ho capito più avanti.
Ascoltando le loro storie, la loro versione dei fatti e le parole che gli altri non ascoltano o non riescono a far emergere, mi sono resa conto che se il corso della mia vita avesse preso una strada diversa mi sarei potuta trovare al posto di ognuno di loro, privata della libertà e della mia identità.
La linea di confine tra il bene e il male a volte è impercettibile, e non è così improbabile trovarsi dalla parte sbagliata. 

E così arriviamo a parlare della “scrittura terapeutica” cioè della teoria della scrittura come strumento di cura: so che tu hai l’incarico di facilitatrice in questo ambito – vuoi parlarcene e spiegarci di cosa si tratta?

La scrittura terapeutica è un metodo ideato da Sonia Scarpante (presidentessa de La cura di sé)e rivolto alla cura del sé attraverso lettere indirizzate a un interlocutore reale.
È un percorso guidato volto a superare la paura dell’imprevedibilità che inibisce la scrittura come conoscenza di sé, imparando a osservarsi da fuori e a sviscerare emozioni e sentimenti, senza sentirsi giudicati. A livello pratico, la persona che conduce il corso – il facilitatore o facilitatrice – introduce l’argomento partendo dalla nascita del metodo e legge la prima lettera, ovvero l’incipit che dà il via al percorso: si tratta della ‘Lettera a me stesso’, la prima e la più difficile da scrivere perché per la prima volta ci si trova davanti al foglio bianco per scrivere a ‘me stesso’ e poi condividerlo con chi ci sta intorno.
Non è facile.
Non è facile scrivere a noi stessi perché siamo abituati a scrivere di noi stessi, e non è la stessa cosa.
Non è facile condividere perché siamo influenzati dalla vergogna di mettere a nudo i nostri sentimenti e dal timore di essere giudicati.
Ci vuole quindi molto coraggio.


Ciò che viene spiegato sin dall’inizio è che il laboratorio di scrittura terapeutica è un luogo sicuro, scevro da giudizio e pregiudizio, e che tutto ciò che viene scritto, letto e condiviso non esce da quella stanza salvo specifica autorizzazione o desiderio del partecipante di far sentire la propria voce all’esterno.
Io lo definisco come il Gruppo degli Scrittori Anonimi.
Chi conduce deve ottenere la fiducia di tutti i componenti, farli sentire al sicuro e liberi di aprirsi, confidando quella parte di sé che sono pronti a condividere in quel momento. E in quel momento, o meglio durante tutto l’incontro, non esiste più un io e un voi, ma un ‘noi’ perché la sofferenza è qualcosa che è comune a tutti indistintamente e in quanto tale ognuno ci si riconosce.
Il fatto che io in prima persona mi metta in gioco aprendomi al gruppo, scrivendo e leggendo le mie lettere,mette le persone in una condizione di agio nel disagio di fissare nero su bianco le proprie sofferenze, la rabbia, la paura e i nodi aggrovigliati nel luogo più profondo dell’anima, della mente o del cuore.


Ci vuole coraggio a fare tutto questo e confidarlo a degli sconosciuti, ma è di sicuro meno complicato che farlo con le persone di famiglia.
Non ci è forse mai capitato di confidare l’impensabile a un compagno di viaggio in treno, certi che inquanto sconosciuto, tale sarebbe rimasto e non ci avrebbe giudicati, presi in giro o messi a disagio? Quanto si sta bene quando ci si libera da un carico che ci opprime sino a toglierci il respiro? Il percorso è lento e difficile. Rievocare episodi o persone che ci hanno fatto soffrire nei vari periodi della nostra vita, sin dall’infanzia,è fonte di dolore, si fa fatica, tanta fatica.


È un po’ come scartavetrare la carena di un vecchio scafo, ma alla fine il risultato è sorprendente.

Non ti nascondo che farebbe bene anche a me poter partecipare ad un Gruppo di Scrittori Anonimi per aprirmi – è veramente una attività interessante, complimenti!
E grazie per avere condiviso il tuo romanzo ed i tanti temi che affronta qui con me oggi.
ciao alla prossima

 

 

Federica Cervini

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